indietro15 gennaio 2013
IL COSMO UTOPICO DI RENZO BERGAMO
di Stefano Sandrelli

“Se l’universo nacque / da una zuffa di gas / zuffa non zuppa allora /
com’è possibile, come... / ma qui gli cadde di mano / quella penna di
cigno / che seppure in ritardo / si addice ancora a un bardo”. Così scriveva
Eugenio Montale, alla metà degli anni Settanta. Splendida, ironica
resa di un poeta di fronte alla complessità della scienza, che – come
aveva denunciato Italo Calvino qualche anno prima – “non ci dà più
immagini da rappresentare. Il mondo che [la scienza] ci apre è al di là
di ogni possibile immagine. Eppure,” proseguiva Calvino introducendo
Le cosmicomiche, la sua opera più scientifica, “al profano che legge scritti
di divulgazione non volgare, ogni tanto una frase risveglia un’immagine.
Ho provato a segnarne qualcuna, e a svilupparla in un racconto: in uno
speciale tipo di racconto comicosmico (o cosmicomico)”.
Nel corso dei decenni, a partire dagli anni Sessanta, la biografia di Renzo
Bergamo ci offre un artista che non si lascia spaventare dalla scienza
sempre meno rappresentabile. Al contrario, Bergamo vive la riflessione
e la visione di temi universali e cosmici come una necessità fisica, mentale
e materiale al tempo stesso. L’infinitamente lontano non risulta mai
troppo astratto, ma materialmente imminente.
Al contrario di un Montale, negli stessi anni in cui Calvino intraprende
la stagione sperimentale delle Cosmicomiche, Bergamo avvia un suo
mondo di finzione cosmica. Finzione nel senso etimologico del termine,
perché ci offre una visione della realtà dei cieli deformata e plasmata
dall’artista-demiurgo, che modella il suo mondo secondo una incoerenza
propria della vita e non della scienza pura.
Quel che vogliamo mettere in evidenza, in Renzo Bergamo, è il tentativo
sempre rinnovato di coltivare e comunicare una propria visione del cosmo,
senza cedere alla tentazione di lasciar cadere di mano “quella penna
di cigno” – o nel suo caso, quel pennello – che si addice a un artista. E
in questa tensione colpisce la continua riproposizione di forme, colori,
strutture che saranno poi confermate nei decenni successivi da telescopi
come il Telescopio Spaziale Hubble, che ha definitivamente modificato
l’immaginario popolare e la rappresentazione scientifica dell’universo.
Certo, sembra facile, quasi scontato: l’universo, nella sua vastità, ci
propone una zoologia fantastica senza confini. Datemi una qualsiasi
immagine astratta e l’universo è in grado di presentarci una galassia,
una nebulosa, una cometa, che ne sarà il ritratto perfetto, a meno di uno
sbuffo di gas e polveri. È per questo motivo che non ha grande interesse,
a mio avviso, stabilire quanto siano realmente astronomiche o possibili
le forme immaginate da Bergamo.
Molto più interessante, dal punto di vista di un astrofisico, è l’incontro
mentale tra l’universo astronomico e l’universo immaginato dall’artista.
Un incontro che dà luogo a un altro mondo, un altro universo. E che
fa sorgere la domanda, il dubbio di sempre: chi immagina che cosa?
E dove si ferma la catena? Studiamo, noi astronomi, l’universo reale o
l’universo immaginato da un Renzo Bergamo, nel quale ha operato un
Renzo Bergamo a sua volta immaginato? Di fronte a un’opera di Bergamo,
viene il sospetto che, guardando meglio, potrei identificare – io che sto
osservando il quadro in questo momento – proprio là, sulla destra, in
quella baruffa di colore, un pianeta simile al nostro e, guardando ancora
meglio, un Sandrelli forse, intento ora a osservare il mio occhio che lo
sta osservando. Memorie borgesiane.
Il cosmo come la culla di tutti i mondi possibili
Il cosmo come la culla di tutti i mondi possibili, dunque. Innumerevoli
regni di Utopia. Quando con Giangiacomo Gandolfi , del Planetario di
Roma, ci siamo voluti cimentare nella cura di un’antologia di racconti
astronomici pubblicata poi da Einaudi (Piccolo Atlante Celeste, Einaudi,
2009, a cura di G. Gandolfi e S. Sandrelli), eravamo affascinati da un
elemento specifi co del cosmo. Che abbiamo riassunto, nella nostra
introduzione, con queste parole:
“Guardare il cielo è decisamente pericoloso. Anche quando non si cade.
Certo, precipitare e ritrovarsi con le terga a terra può condurre a scoperte
sgradevoli e basse: la bolletta da pagare, la fame da soddisfare, un corpo
che pretende le giuste cure. La caduta obbliga, insomma, a ristabilire
un contatto con una realtà assai poco astratta ed elevata. Scomoda
ma con il privilegio della prevedibilità. Pensiamo invece a uno che non
cade. Ciaula di Pirandello, per esempio. Ciaula vive nel pozzo della
miniera dove lavora. Ci scivola al mattino e ci rimane tutto il giorno. La
sua vita è lì, vorremmo poter dire fra quattro mura, ma in realtà in un
cunicolo buio, dentro la terra: una casa e una vita, quella di Ciaula, che
non conoscono neppure il sospetto del cielo stellato. Sì, il cielo lo ha
visto pure lui, ma distrattamente, come un’immagine che scorre senza
fermarsi: non si è mai fermato a contemplarlo. Bene: quando esce dal
pozzo e scopre la Luna – meravigliosa, sublime – il minatore siciliano
la guarda per la prima volta. Ecco perché si inginocchia e si mette a
piangere: perché vede in quel corpo bianco e luminoso, meraviglioso,
come ripeterà Galileo in tanti suoi scritti, un mondo che non aveva mai
potuto neppure considerare.
“È pericoloso guardare le stelle: se non cadi c’è il rischio che tu senta
davvero la possibilità di un mondo diverso da questo. E che questo
mondo non ti basti più”.
Ma perché oggi l’Utopia astronomica è ancora più attuale e pericolosa
di quella di qualche decennio fa? Che cosa è cambiato in questi 40-50
anni che ci separano da Montale e dai primi passi di Renzo Bergamo?
I lanci del Telescopio Spaziale Hubble, funzionante ormai da oltre vent’anni,
dei telescopi spaziali in grado di raccogliere radiazione di altissima
e bassissima energia, dei nuovi grandi telescopi da terra – insieme alla
contestuale diffusione del web – ci hanno messo in contatto diretto e
quotidiano con un cosmo che ci troviamo improvvisamente digitalizzato
dentro casa. È un paradosso, ma, mentre l’inquinamento luminoso
allontana il cielo stellato dalle nostre notti, negandoci anche la legge
morale, l’universo rientra dalla fi nestra attraverso i cavi delle fibre ottiche,
codifi cato in bit. Un universo molto meno sensoriale, ma anche
molto più dinamico, energico, pieno di vita e in rapido cambiamento di
quanto non ci possa apparire a occhio nudo. Del resto, abbiamo vite di
farfalla rispetto ai tempi astronomici: in diretta, nel cosmo, non accade
quasi mai niente. Solo qualche sparuto asteroide, una manciata di stelle
cadenti e qualche rara supernova, più rara di un fungo porcino in città.
Del resto, vantaggi e svantaggi. La tecnologia ha invaso il nostro quotidiano
in modo inesorabile. Come ogni rivoluzione, ha condotto con
sé tanti problemi irrisolti, ma anche e per fortuna un nuovo fi orire delle
immagini della scienza. L’era del digitale, per esempio, ha permesso la
realizzazione di immagini ad altissima risoluzione di sorgenti cosmiche
mai sospettate prima: nubi molecolari che contengono “uova di stelle”,
cioè addensamenti molto densi all’interno dei quali sta nascendo un
astro; nebulose planetarie che identifi cano i gas perduti in migliaia di
anni da stelle giunte al termine della loro esistenza; spaventosi dischi di
accrescimento roteanti intorno a immensi buchi neri.
Ma la vera nuova rivoluzione, l’Utopia incarnata, è stata la scoperta di
pianeti in orbita intorno a stelle diverse dal Sole. Ormai se ne contano
oltre 700 e i numeri crescono giorno dopo giorno. Sappiamo senza ombra
di dubbio che la formazione di sistemi di pianeti è una caratteristica
universale, largamente diffusa in tutto il cosmo. E diventa sempre più
complicato crederci l’unica razza intelligente che si sia sviluppata dopo il
Big Bang. Ma se è così, il regno delle utopie diviene il regno delle probabilità:
l’universo è così vasto che pensarci unici appare più complesso – e
presuntuoso – che ritenere di essere solo una delle innumerevoli civiltà
che si sono sviluppate. Altri mondi, forse altre vite, forse altri assetti sociali.
L’astronomia è, oggi, rivoluzione permanente.